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Il ragazzo contro i carri armati (1989)

Piazza-tienanmen-large.jpgIl Rivoltoso Sconosciuto, o Tank Man, è un ragazzo cinese divenuto famoso in quanto durante la protesta di piazza Tienanmen si parò davanti a dei carri armati per fermarli.

È il soprannome di un ragazzo anonimo che divenne famoso in tutto il mondo quando fu filmato e fotografato durante la protesta di piazza Tienanmen il 5 giugno 1989. Sono state scattate diverse fotografie del ragazzo, in piedi di fronte ai carri armati Tipo 59 del governo cinese, sbarrandogli il passo. La versione più diffusa della famosa immagine è quella scattata dal fotografo Jeff Widener (Associated Press)che vedete qua sopra, dal sesto piano dell'hotel di Pechino, lontano all'incirca 1 km, con una lente da 400 mm. Il fatto ebbe luogo nella grande avenue di Chang'an, vicinissima a piazza Tienanmen e lungo la strada verso la Città Proibita di Pechino, il 5 giugno 1989, il giorno dopo che il governo cinese incominciò a reprimere brutalmente la protesta. L'uomo si mise in mezzo alla strada e ingaggiò i carri armati.

Teneva una busta nella mano sinistra e la giacca nella mano destra. Appena i carri armati giunsero allo stop il ragazzo sembrò volerli scacciare. In risposta, i carri armati provarono a girargli intorno, ma il ragazzo li bloccò più volte, mettendosi di fronte a loro ripetutamente, adoperando la resistenza passiva. Vedendo le foto è evidente, utilizzando le strisce sulla strada come riferimento, che i carri armati si sono mossi in avanti. Dopo aver bloccato i carri armati il ragazzo si è arrampicato sulla torretta del carro armato e si è messo a parlare con il guidatore. Diverse sono le versioni su cosa si siano detti, tra le quali "Perché siete qui? La mia città è nel caos per colpa vostra"; "Arretrate, giratevi e smettetela di uccidere la mia gente"; e "Andatevene!" Un quotidiano britannico ha inoltre diffuso la notizia che fosse stato giustiziato, giorni dopo l'accaduto, ma questa notizia non è stata mai confermata.Si sa poco dell'identità del ragazzo. Poco dopo l'accaduto la rivista britannica Sunday Express suppose si trattasse di Wang Weilin, uno studente di 19 anni; comunque, la veridicità dell'informazione resta incerta. Diverse altre ipotesi sono poi state avanzate sull'identità del ragazzo, ma nessuna è stata mai provata.

Ci sono diverse versioni a proposito di ciò che successe al ragazzo dopo la dimostrazione. In un discorso al Circolo Presidenziale nel 1999, Bruce Herschensohn - uomo molto vicino al presidente degli Stati Uniti Richard Nixon - disse che fu ucciso 14 giorni dopo la manifestazione; altre versioni ipotizzano che fu giustiziato da un plotone d'esecuzione pochi mesi dopo la protesta di piazza Tienanmen. In Red China Blues: My Long March from Mao to Now, Jan Wong scrisse che l'uomo era, ed è, ancora vivo e risiede in Cina. La versione di un testimone oculare dell'evento pubblicata nel 2005, da Charlie Cole, un fotografo della rivista Newsweek, affermò che fu arrestato sul posto dal governo cinese e portato via. Il governo della Repubblica Popolare Cinese diede poche informazioni a proposito dell'incidente e del ragazzo sconosciuto. Nel 1990, intervistato da Barbara Walters, l'allora Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, Jiang Zemin, alla domanda su cosa fosse successo al ragazzo rispose "Penso non giustiziato". In un articolo l'Apple Daily di Hong Kong affermò che l'uomo risiede ora a Taiwan. All'inizio del 2009, secondo l'agenzia di stampa AsiaNews, Wang Lianxi, rilasciato nel 2007 dopo 18 anni di carcere, prima delle Olimpiadi di Pechino è stato internato in un ospedale psichiatrico dove sarebbe tuttora trattenuto.



Kim Phuc, la bambina della foto-simbolo della guerra nel Vietnam (1965)

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Kim Phuc oggi


Nel 1965 poche persone si erano veramente rese conto che i soldati americani stavano per iniziare una lunga e sanguinosa guerra in una terra ancora poco conosciuta del sud-est asiatico. Solamente dopo le prime immagini della TV e i commenti dei giornali, l’opinione pubblica si rese conto che era iniziata un’efferata operazione bellica che ben presto sarebbe divenuta tristemente nota come “guerra del Vietnam”. In quegli anni nacquero movimenti pacifisti e si organizzarono proteste. Nel 1965 un giovane di nome Norman Morris si diede fuoco davanti al Pentagono, nel 1967 il campione del mondo di pugilato Cassius Clay rifiutò di andare a combattere in Vietnam e gli fu tolta la licenza da pugile. Ma più d’ogni manifestazione pacifista, più d’ogni gesto clamoroso, ci sono una fotografia e una bambina che contribuirono a cambiare la sensibilità e a risvegliare la coscienza della gente, nei confronti della guerra del Vietnam. La foto fu scattata l’8 giugno 1972 a Trang Bang, a pochi chilometri da Saigon, dopo un bombardamento aereo con bombe al napalm. La bimba che fugge terrorizzata è Kim Phuc, allora aveva nove anni. Oggi Kim vive in Canada, è ambasciatrice della pace per l’Unesco e dirige una fondazione per aiutare i bambini vittime di guerra. La foto fu scattata da Nick Ut e gli valse il premio Pulitzer. Va però precisato che l'autore della foto, non si limitò a scattare cinicamente, ma immediatamente dopo, ripose la sua camera in una borsa e si occupò direttamente a soccorrere la bimba e la trasportò lui stesso in ospedale.



L'urlo di Tardelli (1982)

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Campioni del mondo!


Il primo mondiale di calcio degli anni ’80, Spagna '82, è stato speciale, non solo per la vittoria della nazionale di calcio italiana ma anche per il contesto in cui è maturata e per come si è concretizzata. Nel 1980 scoppia in Italia uno dei più grandi scandali legati al calcio-scommesse, che lede la credibilità di questo sport fino alla vigilia del mondiale che si giocherà in Spagna. Per la prima volta il torneo presenta 24 squadre (non più 16), con una formula da collaudare, che vede nel tabellone principale quasi tutte le più forti squadre del momento. La qualità dei collettivi e la presenza di numerose stelle hanno consegnato Spagna ’82 alle cronache come uno dei tornei calcistici più belli di sempre. Il Brasile (favorito per la vittoria finale) annovera tra le sue fila Junior, Toninho Cerezo, Socrates, Falcao, Zico; l’Argentina (campione del Mondo uscente) Maradona, Fillol, Passarella, Ardiles; la granitica Germania Ovest Rumenigge, Breitner, Kaltz, Littbarski, Schumacher; l'ambiziosa Francia (campione d’Europa due anni più tardi) Platini, Tigana, Six, Giresse, Tresor, Bossis, Battiston; il Belgio Pfaff, Gerets, Ceulemans; la Polonia Zmuda, Boniek, Lato. Senza dimenticare Arconada, Camacho, Shilton, Robson, Dasaev, Blokhin, Milla e Dalglish.

L’Italia sulla carta è fortissima con Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Antognoni, Rossi, Causio, Tardelli, Conti tra i convocati ma all’inizio del mondiale non le si dava molto credito per il gioco espresso poco incisivo. Nel girone eliminatorio (con Camerun, Perù e Polonia) gli Azzurri sono secondi, alle spalle della Polonia, con 3 punti in virtù di altrettanti pareggi e passano il turno per differenza reti favorevole nei confronti del Camerun. Le polemiche infuriano e la squadra italiana proclama il silenzio stampa. Nei quarti di finale si sperimentano anomali gironi a tre squadre, la prima di ognuno accede alle semifinali. L’Italia è nel gironcino con Argentina e Brasile, formazioni entrambe accreditate per la vittoria finale. Qui comincia una favola, una successione di eventi sportivi che rimarrà per sempre nella storia del calcio e nella memoria di chi li ha seguiti. L’Italia sembra svegliarsi dal torpore contro l'Argentina in una partita non brillante e riesce a vincere 2-1. Brasile-Argentina termina 3-1 e nella terza partita ai carioca basta un pareggio per passare alle semifinali. Il commissario tecnico italiano Bearzot, preparando la gara col Brasile, presenta un modulo prudente con un contropiede manovrato. Il fuoriclasse Zico è marcato da Gentile mentre il nodale Serginho è affidato alle cure di Collovati. Il match è nello stadio catalano Sarrià il 5 luglio 1982. A 5 minuti dal fischio d’inizio Cabrini mette un bel cross nel mezzo, Rossi di testa sigla il vantaggio italiano, la gioia è pari all’incredulità. Al 10’ Zico si libera del suo marcatore, passa palla al capitano Socrates che entra in area ed infila tra Zoff ed il palo alla sua sinistra: 1-1. I carioca prendono le redini del gioco con Falcao in regia, cominciano a giocherellare, mentre Eder esplode tiri a 120 km/h. Ma al 25’ l’avvoltoio Rossi piomba su una palla mal disimpegnata dai centrocampisti verdeoro e batte nuovamente Peres con un tiro: 2-1. Il primo tempo si chiude con un paio di occasioni per i brasiliani e la maglia di Zico stracciata da Gentile. Il secondo tempo è davvero un thriller epico. Ad inizio ripresa Falcao sfiora il palo, al 51’ Conti sbaglia il 3-1, al 53’ Luisinho stende Rossi in area senza l’assegnazione del rigore, al 55’ Zico sfiora il pareggio su punizione, al 56’ Zoff si tuffa sui piedi di Cerezo, due minuti più tardi sventa un tiro di Serginho, al 58’ Rossi in solitudine spedisce fuori, un minuto dopo Eder su punizione esalta le doti di Zoff. Al 68’ Junior serve al limite Falcao, lasciato solo, che con un tiro mancino sigla il 2-2. Anche dopo il risultato a loro favorevole, i carioca non rinunciano al gioco offensivo. In contropiede l'Italia guadagna un angolo al 74’: respinta in area di un difensore brasiliano, tiro di Tardelli, deviazione di Rossi: 3-2. Successivamente l’arbitro, per fuorigioco, prima ferma Socrates, poi annulla un gol ad Antognoni; entrambe le decisioni sono molto discutibili. Ad un minuto dalla fine Eder batte un corner, la deviazione di testa di Oscar è miracolosamente neutralizzata da Zoff. L’Italia è in semifinale contro la Polonia.

Al Nou Camp di Barcellona i polacchi, senza il grande Boniek (squalificato per le ammonizioni rimediate nelle gare precedenti), sono facilmente battuti dagli Azzurri con due gol di Rossi, uno di rapina, l’altro di testa. Nella semifinale Francia-Germania, molto più interessante, il gol dell’ala Littbarski è pareggiato da un rigore di Platini. Nei supplementari i francesi, in vantaggio 3-1, si fanno raggiungere sul 3-3 ed ai rigori passano i tedeschi. Al Santiago Barnabeu di Madrid l’11 luglio 1982 si incontrano per la finale Italia e Gemania. Indisponibile Antognoni, dopo 8 minuti di gara si infortuna anche Graziani che viene sostituito da “Spillo” Altobelli. I centrocampisti tessono le trame del gioco ed al 25’ Bruno Conti è steso da Briegel in area. L’arbitro Coelho fischia il rigore: Antognoni, rigorista della squadra, è fuori; Rossi e Altobelli tergiversano, infine Cabrini calcia e spedisce al lato. Lo smarrimento degli Azzurri non è sfruttato dagli stanchi tedeschi. Nel secondo tempo l’Italia attacca più frequentemente e con convinzione. Al 57’ Tardelli, su punizione, serve palla sulla destra al defilato Gentile che mette al centro, ancora una volta "Pablito" Rossi (capocannoniere del torneo con 6 reti) insacca di testa: 1-0. I tedeschi reagiscono e Zoff deve impegnarsi per disinnescare un colpo di testa di Hrubesch. Al 69’ gli Azzurri muovono verso la porta avversaria: fitta trama di passaggi, Scirea serve Tardelli al limite dell’area, Marco scocca il sinistro, Schumacher non si muove neanche: 2-0. La regia spagnola inquadra prima l’esultanza storica di Tardelli, poi il contentissimo Presidente Pertini in tribuna d’onore. A dieci minuti dalla fine Conti parte in contropiede, appoggia ad Altobelli che fulmina per la terza volta Schumacher. Breitner segna il gol della bandiera poco dopo. Al triplice fischio dell'arbitro brasiliano il compianto telecronista Nando Martellini urla la celeberrima frase: “Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo!”. Il Bernabeu esplode, Il Re di Spagna Juan Carlos consegna a Zoff la Coppa del Mondo. L'Italia piange di gioia e scrive la Storia del calcio.


Muro di Berlino (1989)

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Il Muro di Berlino (in tedesco: Berliner Mauer), nella propaganda della DDR chiamato antifaschistischer Schutzwall, "Barriera di protezione antifascista" era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania est per impedire la libera circolazione delle persone tra Berlino Ovest (de facto parte della Repubblica federale) e il territorio della Germania est. Tra Berlino Ovest e Berlino Est la frontiera era fortificata da due muri paralleli di cemento armato, separati da una cosiddetta "striscia della morte" larga alcune decine di metri. Il muro divise in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale decretò l'apertura delle frontiere con la repubblica federale. Già l'Ungheria aveva aperto le proprie frontiere con l'Austria il 23 agosto 1989, dando così la possibilità di espatriare in occidente ai tedeschi dall'Est che in quel momento si trovavano in vacanza in altri paesi dell'Europa orientale. Durante questi anni, in accordo con i dati ufficiali, furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. Alcuni studiosi sostengono che furono più di 200 le persone uccise mentre cercavano di raggiungere Berlino Ovest o catturate ed in seguito giustiziate. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il Governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell'Est si arrampicò sul muro e lo superò, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall'altro lato in un'atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usato dell'equipaggiamento industriale per rimuovere quasi tutto quello che era rimasto. A tutt'oggi c'è un grande commercio dei piccoli frammenti; il prezzo può variare a seconda della grandezza di questi. La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990. Il Muro di Berlino è considerato il simbolo della Cortina di ferro, linea di confine europea tra la zona d'influenza statunitense e quella sovietica durante la guerra fredda.


Lunchtime atop a skyscraper (1932)

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relax

Siamo a New York ed è il 29 Settembre del 1932. L’ RCA Building del Rockefeller Center sta per essere completato ed i lavori sono ormai arrivati al 69° piano. Un fotografo di 27 anni ha raggiunto il cantiere all’ultimo piano e sta fotografando gli operai ad un’altezza di 260 metri.

Il ragazzo si chiama Charles Clyde Ebbets ed è nato a Gadsden, in Alabama. La passione per la fotografia nasce già ad otto anni quando si compra la sua prima macchina in un negozietto locale addebitando tutto sul conto della madre. All’età di quindici anni trova lavoro come fotografo di scena a St. Petersburg, in Florida, dove si stanno realizzando i primi lavori del cinema americano. Frequentando questo mondo, e diventato oramai maggiorenne, viene incaricato anche per interpretare ruoli d’azione vestendo i panni di un avventuroso cacciatore africano in diversi film. Oltre al suo impegno fotografico, per tutti gli anni '20 si alterna in molti altri lavori avventurosi come il pilota di auto da corsa, il lottatore di wrestling e il cacciatore. Negli anni ‘30 Charles è già un noto fotografo ed i quotidiani più importanti di tutto il paese, compreso il New York Times, pubblicano le sue immagini. Nel 1932 Ebbets viene nominato direttore fotografico per il Rockefeller Center. Il suo compito è quello di seguire tutte le fasi della costruzione, fotografare gli stati di avanzamento ed i lavori del grattacielo che lentamente si concretizza nei cieli di New York.

A fine Settembre i lavori sono quasi conclusi. Il palazzo è arrivato al penultimo piano e Charles non vuole perdere l’occasione per fotografare la città dal punto più alto. E’ ora di pranzo il 29 Settembre del 1932 e gli operai prendono una pausa dai lavori per mangiare il pasto portato da casa. Ebbets è lì con loro e scatta un paio di foto ad undici uomini che lavorano al cantiere. Sono seduti su una trave di acciaio e mangiano con i piedi penzolanti. Sullo sfondo il Central Park.

Alcuni fumano, altri aprono i contenitori per il cibo, altri ancora bevono. Sono tutti piuttosto allegri e probabilmente consapevoli di essere sotto gli occhi attenti di un fotografo. Dopo il pranzo, gli stessi uomini si sdraiano in equilibrio sulla trave e si riposano. I corpi si incastrano per assicurarsi tra loro e non cadere. Ebbets è sempre presente e, dalla stessa posizione, scatta una seconda fotografia. (vedi in alto a destra) L’immagine del pranzo sopra il Rockfeller Center appare nel supplemento fotografico domenicale del New York Herald Tribune il 2 ottobre 1932.

Fino all’Ottobre del 2003 l'Archivio Bettman, proprietario del copyright, non riconosce a Charles Ebbets la paternità dell’immagine. Addirittura viene spesso erroneamente attribuita a Lewis Hine, il quale, un anno prima, aveva seguito e documentato la costruzione dell'Empire State Building. L’esatta associazione foto-autore avviene solamente quando Corbis (che nel frattempo ha rilevato l’Archivio Bettman) invita chiunque avesse fatto una foto dell’archivio o era raffigurato nella collezione, a contattare la società. La moglie e la figlia di Ebbets si presentano alla Corbis per portare le prove della paternità della foto. Mostrano centinaia di negativi scattati durante i lavori del grattacielo, foto e ritagli di giornali, documenti di assicurazione contro incidenti avvenuti in cantiere ed una foto che ritrae lo stesso Ebbets accovacciato mentre realizza il famoso scatto.

Negli anni ci si è sempre domandato chi fossero gli uomini catturati dall’obiettivo di Ebbets. Si è sempre creduto fossero italiani ma negli ultimi anni i discendenti o i parenti degli operai hanno fornito la loro vera identità. Il quarto uomo da destra è stato identificato da un nipote di Francis Michael Rafferty e alla sua destra è seduto il suo migliore amico Stretch Donahue. Gli uomini di estrema sinistra e di estrema destra sono Matty O'Shaughnessy e Patrick Glynn, entrambi provenienti dalla Contea di Galway, in Irlanda. Il terzo da sinistra è Austin Lawton di King’s Cove nel Newfoundland in Canada ed anche il quinto uomo da sinistra, Claude Stagg, proviene da Catalina nel Terranova in Canada. Gran parte di loro sono quindi uomini emigrati negli Stati Uniti per una vita migliore.

Charles Ebbets continua la sua attività di fotografo spostandosi in Florida dove decide di vivere e lavorare per il resto della sua vita. Con le sue immagini favorisce lo sviluppo del turismo nella penisola e, grazie ad i suoi lavori sulle vaste distese naturali delle Everglades, instaura un forte legame con gli indiani Seminole tanto da poter documentare per la prima volta la loro vita, i loro villaggi e le loro tradizioni. Per diciassette anni è capo fotografo della città di Miami ed è testimone della crescita della sua città. Nel 1978 Ebbets muore di cancro a 72 anni con più di 300 immagini pubblicate a livello nazionale. La foto del pranzo sul grattacielo è considerata una vera icona americana da più di 70 anni.

2011

Nel 2011 a Londra, durante la costruzione della Heron tower, 11 ingegneri hanno ricreato quella famosa immagine, ma sotto i giubbotti erano tutti equipaggiati con imbragature di sicurezza, opportunamente occultati nell'immagine. (in alto la seconda a destra, cliccare per ingrandire)


Forse la storia non finisce qui....

Ricostruita l’identità di quattro operai nel celebre scatto della pausa pranzo sul cantiere del Rockfeller Center VITTORIO SABADIN Una delle foto più famose del mondo, ancora oggi riprodotta su magliette, manifesti, vassoi, cartoline e opere d’arte, è quella che ritrae undici operai che fanno colazione seduti su una trave d’acciaio sospesa nel vuoto, scattata il 20 settembre 1932 al cantiere del Rockefeller Center, a New York. Non c’è persona che non l’abbia vista e che non la ricordi con un brivido di emozione, per la noncuranza di quelle figure sospese a 260 metri dal suolo, che nella pausa di mezzogiorno bevono, fumano e mangiano con la tranquillità che avrebbero se si trovassero al caffè di sotto, sulla 50° strada.

Per 80 anni è stato impossibile scoprire l’identità di quegli operai, molti dei quali erano immigrati dall’Europa. Ma una meravigliosa storia, cominciata in un pub irlandese, ha permesso di identificarne quattro e può portare nei prossimi mesi a completare l’elenco di quei coraggiosi, irresponsabili funamboli.

I f ratelli Sean ed Eammon O’Cualain stavano girando nel 2011 un documentario a Shanaglish, nel Nord dell’Irlanda, quando entrarono per una birra nel pub di Mickey Whelan. Dietro al bancone c’era una copia della foto del Rockefeller Center, appesa alla parete come in milioni di altri bar del mondo. Ma questa aveva qualcosa di diverso: sotto l’operaio che occupava il primo posto a destra e teneva una bottiglia in mano, c’era una scritta: «Questo è mio padre Sonny. Pat Glynn». Sean e Eammon possiedono quell’istinto che consente di vedere grandi storie dietro a piccoli particolari, e chiesero al padrone del pub come contattare Pat Glynn, nella speranza di ricavare abbastanza materiale per un documentario da mandare in onda su «Tg4», una emittente irlandese. Uscirono dal locale con un numero di telefono, che aveva il prefisso della città di Boston.

Pat non aveva prove per dimostrare che l’uomo sulla trave fosse suo padre, ma non aveva nemmeno dubbi al riguardo. «Certo che è lui. E il primo a sinistra è mio zio, Matty O’Shaughnessy. Erano emigrati insieme in America e insieme hanno trovato lavoro».

E gli altri? La risposta stava forse 70 metri sottoterra in Pennsylvania, negli archivi dell’agenzia Corbis, proprietaria dell’immagine. Lo studio dei negativi originali permise di scoprire molte cose. Innanzi tutto il fotografo che aveva ripreso la scena (forse Charles Ebbets, forse Lewis Hine) non era solo quel giorno nel cantiere. Sulla torre della Rca c’erano i suoi colleghi William Leftwich, a cavallo di una putrella con il cappello in testa e la macchina in mano, e Thomas Kelley, sospeso a quell’altezza vertiginosa in giacca e cravatta. Negli archivi di Corbis ci sono altri negativi che riprendono gli operai prima e dopo lo scatto diventato famoso, cosa che fa pensare a una seduta fotografica organizzata. All’epoca si usavano lastre di vetro, ed era impossibile cambiarle ed effettuare più scatti tenendosi in equilibrio a quell’altezza. Può darsi che i lavoratori siano stati messi in posa. In piena depressione, con una disoccupazione al 24% e lo scontro presidenziale fra Franklin Delano Roosevelt e Herbert Hoover in corso, non era una cattiva idea mostrare sul «New York Herald Tribune» del 2 ottobre lo sfrontato orgoglio di operai pagati bene, un dollaro e mezzo l’ora, per celebrare la gloria del Rockefeller Center e di New York.

Ma sulla trave, ha sottolineato il Magazine di «Le Monde» nel rievocare la vicenda, c’erano comunque lavoratori veri e aveva un senso cercare di scoprire chi erano. Tra le foto dell’archivio ne fu trovata un’altra, che riprendeva quattro operai sdraiati su una putrella d’acciaio. Incredibilmente, sul retro dell’immagine erano annotati i loro nomi e, cosa più sorprendente ancora, due di loro facevano anche parte degli undici dell’immagine più nota: erano Joseph Eckner, terzo da destra, e Joe Curtis, terzo da sinistra.

I fratelli O’Cualain hanno mandato in onda su «Tg4» il loro documentario, in gaelico e in inglese, nel giorno di St Patrick di quest’anno. L’hanno intitolato «Men at Lunch», «Uomini al pranzo», senza avere la minima idea dell’interesse che avrebbero suscitato. Adesso arrivano loro lettere da ogni parte d’Europa, scritte da persone che credono di avere individuato nella foto un loro parente emigrato a New York negli Anni 20. Può darsi che in poco tempo si riesca a completare l’elenco di quegli operai, dando un nome anche agli altri sette. Se qualcuno li ha messi in posa, questo non toglie nulla al loro coraggio, alla loro fatica e all’icona che sono diventati per quell’America disperata che cercava di rialzare la testa.

fonte LaStampa




La Grande depressione (1936)

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Questa immagine scattata da Dorothea Lange, e una migrante Florence Owens Thompson, 32 anni, madre di sette figli, Nipomo, California, Marzo 1936.

E la maschera di una madre disperata alle prese con la grande crisi conseguente al crollo della borsa nel 29, ma potrebbe benissimo essere il volto di una madre, di un padre o di un figlio, uomo o donna che sia, comunque .....scattata oggi... certo qualcuno potrà obbiettare, si ma questo è un sito di fotografia...ma...la fotografia e parte integrante di un giornale di cronaca, di un libro di storia, dove si raccontano le vicende dell'umanità, talvolta belle e talvolta no, pertanto ritengo che anche questa immagine sia appropriata.

--Enzocala 11:47, 4 mag 2012 (CEST)



The Beatles - Abbey Road (1969)

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L'8 agosto 1969 alle 11:30 Iain McMillan ha scattato questa fotografia ai Beatles che attraversano la strada, questa è tra le più famose foto dei Beatles, ed è stata usata per l'album Abbey Road, in quel periodo si pensa che Paul sia morto e che questa foto sia una delle prove che John Lennon ha disseminato per diffondere la notizia, Nell'immagine i Beatles attraversano una strada in fila indiana come se partecipassero ad un funerale, e Paul è senza scarpe. Sullo sfondo si vede un Maggiolino targato "28 IF" che secondo sembra essere un riferimento all'età di Mc Cartney se non fosse morto, e "LMW", ovvero Linda Mc Cartney Widow (vedova). Nella canzone "Come Together", John Lennon canta "one and one and one is three", chiaro riferimento alla mancanza di Paul. Lo stesso Mc Cartney, nel 1993, pubblicò l'album "Paul is live". Nella foto di copertina la location è la stessa di "Abbey Road", ma Paul è solo con un cane e la targa del Maggiolino è diventata "51 IS".


Esecuzione in strada di un viet-cong (1968)

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Questa foto è stata scattata da Eddie Adams e gli valse il premio Pulitzer. La foto che ritrae il generale Nguyễn Ngọc Loan mentre sparava alla testa di Nguyễn Văn Lém, un prigioniero, nelle strade di Saigon. Adams ha fissato per sempre nella pellicola l'attimo in cui il proiettile entra nella testa del prigioniero, una foto di guerra che è stata definita tra le più drammatiche e impressionanti. Era stata scattata mentre si trovava in Vietnam come inviato dell’Associated Press, agenzia per la quale ha lavorato per buona parte dei cinquant’anni della sua carriera. La pubblicazione della foto sconvolse non solo gli Usa e fu tra le immagini che spinsero l’opinione pubblica americana a cominciare ad opporsi in modo massiccio alla guerra.

prigioniero
vilipendio
eseguito



Albert Einstein (1951)

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Questa foto divertente del famoso fisico, Albert Einstein, fu fatta subito dopo il banchetto del suo 72esimo compleanno quando un gruppo di fotografi e reporter gli dissero di mostrare un sorriso. Non volendone sapere di mostrare un altro sorriso ai rumorosi media, fece una linguaccia e subito dopo girò il volto. ma inaspettatapemte, il fotografo Arthur Sasse premette il pulsante di scatto nel momento giusto e fece la fotografia più influente della sua carriera. Albert Einstein era, tuttavia, un uomo molto ironico. Gli piacque talmente che la spedì come cartolina a tutti i suoi amici più cari. Alla fine, lui e la sua lingua divennero così famosi tanto che la fotografia è riprodotta in larga scala su differenti prodotti come poster e adesivi. E non è una sorpresa che questa foto venne battuta all’asta per la cifra di $72.300- facendola diventare la foto più cara che ritrae Einstein che sia mai stata venduta.


La battaglia di Berlino (1945)

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il Reichstag oggi

La battaglia per Berlino iniziò il 21 aprile 1945, quella per il Reichstag il 29 aprile. Obiettivo politicamente strategico delle truppe alleate, proprio per il suo valore simbolico, la sua conquista, il 2 maggio del 1945, costò la vita a 1300 soldati dell'Armata Rossa. Nel corso della battaglia, per distinguere gli obiettivi consolidati dalle possibili sacche di resistenza, i soldati sovietici issavano una bandiera rossa in cima ad ogni edificio espugnato. In questo modo sapevano, via via che procedevano, quali edifici, quali quartieri di Berlino fossero stati bonificati delle ultime reazioni della guerriglia nazista.

Dopo la sua espugnazione, una bandiera rossa venne quindi issata anche sul cornicione principale del Reichstag. Questo avvenimento fu immortalato a imperitura memoria dal fotografo ucraino Evgenij Chaldej in un'immagine dal fortissimo valore simbolico. Nei giorni successivi alla sua caduta, molti soldati sovietici si fecero ritrarre dinanzi all'edificio e molti lasciarono in segno del proprio passaggio, un'incisione recante il proprio nome o un messaggio che esprimesse i propri sentimenti. Alcuni di queste cicatrici sono ancora visibili. Il palazzo del Reichstag suggellava così simbolicamente l’inizio e la fine della dittatura nazionalsocialista.


La bomba di Hiroshima (1945)

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the day after
Peace park

La mattina del 5 agosto 1945, poche ore prima dell'alba, il quadrimotore B-29 "Enola Gay" (nome della madre del pilota, il ventinovenne Paul W. Tibbets) si alza in volo da Tinian con a bordo 12 uomini di equipaggio e un unico ordigno bellico, che risulterà decisivo per la sorte del Giappone: una bomba atomica, denominata dagli statunitensi "Little boy". Lungo tre metri, con un diametro di uno e mezzo e un peso di cinque tonnellate, non ha un bersaglio preciso: verrà deciso al momento, secondo le condizioni atmosferiche. Arriva il bollettino meteorologico: "a Kokura cielo coperto in prossimità del suolo per nove decimi; a Nagasaki coperto totalmente; a Hiroshima quasi sereno, visibilità 10 miglia" Il bersaglio è scelto. L'aereo sorvola la zona a 10.500 metri di altezza e alle 8.15'17" viene sganciato l'ordigno. Tibbets scende in picchiata, guadagna velocità, vira di 180 gradi e si allontana. Ha 45 secondi di tempo. L'equipaggio conta sottovoce: "44, 43, 42, 41...". Un lampo abbaglia il cielo. "Cosa abbiamo fatto?". A 600 metri dal suolo la bomba esplode; dopo 7 secondi il silenzio è rotto da un tuono assordante: vengono distrutti tutti gli edifici nel raggio di tre chilometri, 30.000 persone muoiono sul colpo, altre 40.000 nel giro dei due giorni seguenti. Una colonna di fumo si alza lentamente a forma di fungo fino a 17.000 metri dal suolo. Inizia a cadere una pioggia viscida. I fiumi straripano ed invadono ciò che rimane della città giapponese. Alle 14.58 locali il B-29 di Tibbets atterra a Tianin. Ha segnato in modo indelebile la storia mondiale, ha lasciato un'impronta che rimarrà a lungo. Non so chi abbia scattato questa foto...sicuramente dai bombardieri americani.

65 anni dopo l'orrore di Hiroshima gli USA sono presenti alla commemorazione per le vittime. Un buon segno. Che incoraggia ad un passo ulteriore: quello di ammettere di aver commesso un massacro crudele e inutile.

"L'uomo ha costruito la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi." - Albert Einstein


Minamata (1970)

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effetti
il viaggio del mercurio nel mare


Ci sono storie che è giusto raccontare anche se il tempo è passato,anche perchè certe storie non possono essere dimenticate. Quella che vi stò per raccontare è la storia di una baia Giapponese,il suo nome è Minamata. Nel 1956 la Baia di Minamata divenne molto famosa per una malattia che devastava e che colpiva gli abitanti del posto, e nessuno sapeva come mai era all'improvviso comparsa in quelle zone. In principio i primi ad avere strani sintomi furono i gatti: il loro atteggiamento cambiò, compivano movimenti irregolari, e si suicidavano gettandosi in mare. Si scoprì che la malattia era scatenata dal rilascio di metilmercurio nelle acque a opera dell'industria chimica Chisso Corporation,che in realtà inquinava le acque da molti anni prima.Il rilascio di mercurio venne attuato dal 1932 al 1968, in questo arco di tempo i pesci, i molluschi e i crostacei accumularono sostanze tossiche che poi finivano nei mercati e nelle cucine degli abitanti del luogo atraverso il pesce pesacato, avvelenando moltissime persone.Per più di 30 anni si continuarono a mietere vittime tra le persone e gli animali. Grazie all'Università di Kumamoto infine si capì che la malattia era legata al rilascio di Mercurio, che nel arco degli anni era stato riversato in mare per un totale di circa 27 Milioni. Questa malattia colpisce il sistema nervoso, paralizzando anche le mani e i piedi. Causa la completa perdità della coordinazione muscolare, dando anche una tremenda debolezza al muscolo. Si ha la quasi totale perdita della vista, difficoltà nel parlare.In alcuni casi le persone perdevano la ragione e cominciavano a vagare come in un film di romero(Zombie).La malattia venne chiamata con più nomi :sindrome di Minamata, malattia di Chisso-Minamata. Non si può guarire da questa malattia. I bimbi nati dalle mamme avvelenate furono quelli che in realtà subirono più danni di tutti gli altri, perchè spesso nascevano con arti deformi, sordi, ciechi, ritardati. Gran colpa del disastro è dovuto anche al governo che era fortemente "amico" delle industrie chimiche. Nel 2001 ci furono circa 2265 vittime (tra cui 1784 decedute) e più di 12000 hanno ricevuto solo ridicoli risarcimentii dalla Chisso. Molte altre persone sono ancora in attesa di avere giustizia. Le industrie non solo hanno ucciso e martoriato la gente di Minamata, ma hanno giustamente pensato bene di far firmare a chi chiedeva i risarcimenti un foglio che diceva che la Chisso non era responsabile di futuri bimbi deformi. Così facendo almeno si tutelavano dal possibile, risarcimento di futuri abitanti che affetti da tale malattia sarebbero ritornati a chiedere il rimborso dei danni. Nel mese di Ottobre del 1982 fù depositata una denuncia contro il governo Giapponese che non aveva fermato la Chisso quando avrebbe potuto, nel 1959, visto che violava le leggi sia sull'inquinamento che sui diritti dell'uomo.Finalmente nel 2001 la corte di Osaka stabilì che il governo della sanità, e della previdenza avrebbero dovuto fermare tutto anni e anni prima. Governo che pagò nel 2004 71,5 milioni di Yen. Peccato che nessuna somma potrà mai ridare serenità a tutti i malati che sono nati, e che nasceranno. Nel mondo il caso venne alla ribaltà nel 1970 grazie ad un fotografo W. Eugene Smith,che denunciò con delle foto la Chisso Corporation, e rese in parte giustizia a tutte quelle persone che non avevano ancora ottenuto nulla.Nel Luglio del 1997 furono finalmente tolte le reti che trattenevano i pesci nella baia che per più di 30 anni avevano evitato che il pesce malatto infettasse gli altri,uscendo dalla baia. Il pesce infatti non risultava più infetto dopo 40 anni.

Di tutto questa storia vorrei che guardaste bene la fotografia, tutti i fotografi si concentrano esclusivamente sul ministro intento a chiedere scusa ad un malato ma nessuno dei fotografi e dei giornalisti si concentra sull’uomo malato. Eugene Smith, che secondo me è un genio, inquadra invece i fotografi che ignorano il malato dando bene l’idea di quanto accada..


Afghan girl(1985)

Afghan girl.jpg
cover
Sharbat Gula 17 anni dopo

abbiamo già postato questo scatto sotto la biografia di Steve McCurry, ma secondo me vale la pena riparlarne.. la foto si intitola Afghan girl ed è stata scattata nel 1984 in Peshawar da Steve McCurry, La ragazza della foto, Sharbat Gula all’epoca aveva 13 anni e la sua immagine apparse sulla copertina del National geographic nel giugno del 1985 Il suo sguardo fiero è diventata il simbolo della sofferenza di un’intera generazione di donne Afgane e dei loro bambini, la foto fu scelta l'anno dopo, come copertina da National Geographic. la foto fece il giro del mondo, divenendo il simbolo della condizione dei profughi di ogni provenienza, 17 anni dopo McCurry decise di rintracciare la ragazza in un Agfanistan molto cambiato. (Da questa ricerca National Geographic produsse il documentario Search for the Afghan Girl ), oltre a ridedicare una prima di copertina alla donna che per 17 anni era stata ignara della fama conquistata nel mondo dalla sua immagine. Stralcio tratto dal National Geographic: La luce era morbida. Il campo profughi in Pakistan era un mare di tende. All' interno della tenda scuola fu la prima bambina ad essere notata. Percependo la sua timidezza, il fotoreporter Steve McCurry si avvicinò a lei, e solo all'ultimo momento le chiese se poteva scattare la foto. McCurry ricorda ancora la sua espressione. Quell'uomo era uno sconosciuto, e lei non era mai stata fotografata prima. E non lo sarà fino al successivo incontro, 17 anni dopo. Sharbat Gula non è stata più fotografata. Chi non ricorda i suoi disarmanti occhi verdi, spalancati, in quell'espressione mista tra paura, mistero, rabbia e voglia di riscatto? "Non pensavo che la fotografia della ragazza sarebbe stata diversa da qualsiasi altra cosa che ho scattato quel giorno", dice McCurry, ricordando quella mattina del 1984, passata a documentare il calvario dei profughi dell'Afghanistan. Il ritratto di McCurry si rivelò essere una di quelle immagini che colpiscono al cuore, e nel giugno del 1985, fu stampata sulla copertina della rivista National Geographic. Quegli occhi sono di colore verde mare. In essi è possibile leggere la tragedia di una terra prosciugata dalla guerra, e sono divenuti noti in tutto il mondo grazie alla National Geographic come gli occhi della "ragazza afghana". Per 17 anni nessuno ha conosciuto il suo nome.


Coppi e Bartali (1952)

Coppi-e-bartali.jpg Questa è unì'immagine storica del ciclismo, siamo al Tour de France del 1952 Coppi, Bartali e quella foto entrata nel mito delle due ruote Vito Liverani, decano della fotografia italiana, è il custode del segreto della storica fotografia di Coppi e Bartali. Solo lui sa chi passò la borraccia Ma non lo dirò mai, giura il fotogiornalista. Quella di Vito Liverani è una vita dietro l’obiettivo. Ha iniziato giovanissimo, a 12 anni, a scattare foto e non ha mai smesso.

Foto e sport, le sue passioni. Pugilato e ciclismo prima di tutto. Sport di fatica e di passione. Oltre a essere un guru della camera oscura, Liverani è anche il custode di uno dei segreti d’Italia. Dell’Italia sportiva, s’intende. La foto di Bartali e Coppi, quella del Giro di Francia del 1952, in cui si passano una borraccia. E nessuno sa chi la passi a chi. Un dubbio che fa discutere e litigare gli appassionati delle due ruote da più di mezzo secolo.

Liverani, la foto della borraccia è sua? Innanzitutto precisiamo una cosa. Coppi e Bartali non si stavano passando una borraccia ma una bottiglia d’acqua, probabilmente di Perrier. Eppure si è sempre parlato di borraccia, sbagliando. Basta osservare con attenzione la fotografia e si vede che è una bottiglia.

Ma la foto ora ce l’ha lei?

Sì io gestisco lo sfruttamento dell’immagine per conto della moglie di Carlo Martini, il fotografo che la scattò. Ci tengo molto a precisare che la foto è stata scattata da lui, perché nel corso degli anni molti fotografi ne hanno reclamato la paternità, ma quella foto è di Martini. Non ci sono dubbi. Io lo conoscevo molto bene, presi il suo posto alla Gazzetta dello Sport.

Una foto storica e avvolta dal mistero.

In verità c’è poco di misterioso. Quella foto è stata creata. Martini si mise d’accordo coi due corridori e col direttore di gara per scattarla. Diede una bottiglia a un suo amico e gli disse di dargliela quando passavano.

E perché?

Per fare una foto diversa. A quei tempi noi fotografi ci tenevamo molto ad avere immagini diverse da tutte le altre. E’una foto creativa, bellissima, un’immagine che vorrei avere scattato io. Oggi una foto del genere sarebbe impossibile.

In che senso?

Nel senso che allora fra colleghi ci rispettavamo e non ci rubavamo le idee e le immagini. Se Martini la facesse oggi dietro di lui ci sarebbero una decina di fotografi a copiare la sua idea.

Mi tolga un dubbio. Chi ha passato la bottiglia. Lei lo sa.

Certo che lo so. Ma non ho intenzione di dirlo. Basta avere il numero di “Un anno di sport del 1952”, costava 100 lire e aveva 100 notizie per cento pagine.

Un segreto economico direi… Peccato che immagino non sia più in edicola.

Io l’ho preso a un mercatino tanti anni fa. Un segreto che non è un segreto. Nella didascalia della foto di copertina il mistero è svelato. Sfortunatamente sono rimaste pochissime copie. Ma io non voglio rompere questo silenzio.

Non vuole proprio dirlo. Perché?

Per i tifosi e per tutto il caso che questa fotografia nel corso degli anni ha creato. Per il gesto. Durante una gara di quel tipo, a luglio, una bottiglia d’acqua è un bene prezioso, necessario. Martini gliel’ha fatta consegnare e loro se la sono passata. Un bel gesto. Non importa sapere chi l’ha passata per primo.


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